di Lorenzo Camerini – Tena
Sono le 7 di mattina, il sole è già sorto da un’oretta ma rimane sotto la coltre di nebbia, quella nebbia passeggera che avvolge la selva amazzonica, per poi diradarsi verso la tarda mattinata. Io, gli altri volontari del Bonuchelli addetti al vivaio per questa mattina abbiamo una raccolta semi da fare: i semi di chuncho, un albero da legno della famiglia delle Fabacee. Un giorno mentre riempivo i sacchetti di terra nel vivaio mi è venuto un flash sul nome scientifico del chuncho (Cedrelinga cateniformis Ducke). Mi sono fatto una teoria tutta mia: il nome del genere potrebbe venire da Cedrela (nome scientifico del cedro amazzonico, che ha una corteccia molto simile al chuncho) + Inga (nome scientifico delle guabe, le quali sono evolutivamente affini al chuncho).
Saliamo sulla macchina guidata da Jeyson (il responsabile del vivaio) verso le 7 e mezza, arrivando nei pressi di una frazione nell’entroterra di Archidona. La nebbia ha fatto spazio a nubi portatrici di pioggia. Aspettiamo in macchina sperando che la pioggia vada via… purtroppo questo non accade, allora decidiamo di uscire dalla macchina per raccogliere i semi. L’albero in questione si trovava di fianco a due chakra (i sistemi agro-forestali delle popolazioni indigene kichwa), ed aveva già fatto cadere molti semi per terra. Ci mettiamo a rovistare tra l’erba alta di una chakra e l’erba bassa di una seconda chakra, rendendoci conto che la maggior parte dei semi non presentava l’embrione oppure era stato mangiato dalle formiche tagliafoglie.
Jeyson ci insegna a distinguere i semi vuoti (che appaiono piatti) dai semi pieni (con un rigonfiamento al centro dello stesso), e dopo esserci addentrati un giardino svegliando il proprietario, ci rendiamo conto che i semi per terra sono finiti. In questi casi Jeyson si arrampica sull’albero con l’equipaggiamento da treeclimber per raccogliere i semi rimasti. Per allestire le corde di arrampicata sui rami dell’albero lanciamo un peso con una corda, il quale oltrepassando un ramo e cadendo a terra diventerebbe la base per mettere le corde più resistenti in grado di sostenere il peso di Jeyson (o è almeno così che dovrebbe funzionare…). Oggi, questo chuncho non ne vuole sapere di essere scalato da noi.
Dopo una buona mezz’ora di lanci verso la prima diramazione posta ad almeno 8 metri di altezza, becchiamo il ramo ma il cordino legato al peso si rompe ed il peso finisce il un punto non meglio specificato di una chakra fittissima, su un versante di collina molto ripido e fangoso. Per cui il peso viene dichiarato per smarrito. C’è una buona notizia però: abbiamo un secondo peso! Dopo un quarto d’ora di lanci becchiamo il ramo. Al lancio vincente, gioiamo, ma l’ilarità scompare presto: il cordino ha fatto 3 giri su sé stesso, si è incastrato sul ramo ed il peso non riesce a scendere a terra. Il signore del giardino di fianco ci presta una canna di bambù lunghissima che usiamo per cercare di fare scorrere il peso fino a terra, ma invano! Anche questa volta il cordino si rompe ed il peso finisce in un luogo non accessibile: ha vinto il chuncho! Torneremo un’altra volta a cercare i pesi smarriti.
Casa Bonuchelli è il luogo dove noi volontari soggiorniamo. Si trova nel quartiere Dos Rios della città di Tena, nell’amazzonia ecuadoriana. È una città abbastanza grande per avere comfort ed abbastanza piccola per essere tranquilla. -È una città a cui non manca niente- così la definiscono gli abitanti, non nascondendo una qualche forma di orgoglio. Viene anche chiamata “La porta dell’amazzonia”, perché è uno dei posti da cui partono le esplorazioni per i luoghi più remoti della stessa. La avenida 15 de Noviembre è la strada principale e taglia in due tutta la città. È piena di negozi di tutti i tipi (con una sovrabbondanza di farmacie e di centri per riparazioni cellulari..!) Ora che ci penso, sono più di 7 i mesi che sto passando qui la mia vita. Mi sembra di essere sempre stato qui: ogni cosa con cui entro in contatto, dalle piante alle persone, mi è oramai familiare.
Quando cammino per la Avenida 15 de Noviembre so dove sto andando, ma mi prendo il giusto tempo per osservare tutto il fracasso, sedermi di fianco alla signora ambulante che vende i dolci, raccontarle chi sono ed ascoltare il pezzo di vita che si sente di condividere con me. Ogni tanto il suo discorso viene interrotto da bambini curiosi interessati ai dolci, oppure dallo sventolare di un aggeggio di plastica autocostruito con il fine di allontanare lo sciame di mosche che si posano sui dolci. Poi mi raggiungono gli altri volontari del Bonuchelli: oggi è il giorno della spesa, e il mio turno è andare a comprare al mercato del Sur.
Il mio rapporto con le fruttivendole è radicalmente cambiato dall’inizio: prima le vedevo come assetate di soldi ed interessate soltanto ad alzare i prezzi della frutta, poi, settimana dopo settimana, comincio a scambiare due parole. Poi queste parole si trasformano in racconti di vita: ti fanno vedere i loro figli, i loro cari. C’è chi è una ex- suora, c’è chi è separata, insomma sono dei portali di condivisione che improvvisamente si aprono. E, magari, per il solo fatto che ti fermi lì ad ascoltarle, ti offrono i mandarini che loro stesse spiluccano qua e là, tra un cliente e l’altro. Poi viene la volta delle venditrici locali kichwa. La mia preferita, è una signora dalla quale non compro mai nulla (perché non ha né frutta, né verdura). Ci vado solo per scambiare due parole e per uscire dalla comfort zone della lingua spagnola, tentando di spiccicare le poche parole kichwa insegnatemi da Jason ed Eliceo.
In questi 7 mesi di volontariato ho imparato a mettere a bada la fretta. Se si vuole qualsiasi qualcosa qui bisogna ASPETTARE. Dapprima vivevo queste attese con ansia e frustrazione, focalizzandomi solo sulle ragioni per cui le cose, a mio vedere, non funzionavano con la dovuta efficienza, oppure sul non essere riuscito a portare a casa i 600 semi di chuncho previsti. Poi, piano piano, mi sono reso conto che volente o nolente, l’attesa ed i fallimenti sono inevitabili, qualora siano dovuti a cause esterne. Per questa ragione bisogna fare i conti con la frustrazione e l’attesa. Tutta la vita è fatta di alternanza tra fasi di attesa e movimento.
Penso che una delle maggiori fonti di infelicità venga dall’avere tutte le cose immediatamente, dal trascurare l’attesa in favore dell’eccessivo movimento. Questo è uno dei principali inconvenienti delle nostre società “sviluppate”: non si fa in tempo a desiderare pienamente qualcosa, che già quella stessa cosa è arrivata sotto forma di video su Youtube o di acquisto tramite click. Se questo processo si ripete tante volte, si rischia di desiderare meno e soprattutto si rischia di dimenticare la misura delle cose: quanto lavoro c’è dietro il cibo che mangiamo? Ore e ore di lavoro sotto il sole, colpi di machete, attesa e raccolta.
A Tena ma soprattutto nelle comunità le persone hanno meno pretese. L’attesa, il desiderio sono imposti dagli elementi della natura che governano sovrani (l’alternarsi del giorno e della notte, del caldo e del fresco, della pioggia e del sole). Il movimento e la soddisfazione sono dovuti ad una grande forza vitale. Dalla fatica e dall’attesa si raccologono i frutti migliori, e sono grato per aver potuto entrare in contatto con questo modello di vita.