di Cristina Lemmo – Può essere espresso, lungo, ristretto, macchiato caldo o freddo, corretto, e in tante altre varianti. C’è chi lo considera un momento di aggregazione, chi una necessità per poter iniziare la giornata e chi un momento di relax durante le giornate lavorative, ma una cosa è certa, il caffè è conosciuto in tutto il Mondo.
Ma qual è la sua origine?
Una leggenda narra che le proprietà del caffè siano state scoperte in Etiopia grazie a un pastore che osservava le sue pecore brucare tutti i giorni le bacche rosse brillanti di un albero dalle foglie verdi e lucenti. Notò che queste provocavano un effetto eccitante sul gregge e decise così di masticare egli stesso i frutti.
Il pastore ammaliato dagli effetti eccitanti del frutto decise di portare le bacche a un santone islamico che viveva in un monastero vicino. Il saggio dopo averle assaggiate le giudicò come un frutto del diavolo e le scaraventò nel fuoco, da dove si sprigionò un aroma allettante.
I chicchi abbrustoliti furono subito strappati alle braci, sbriciolati e dissolti in acqua calda per ricavarne così la prima tazza di caffè.
Fu così che nacque il consumo di questa bevanda che fu poi diffusa in tutto il Mondo, prima in Europa e poi nella prima metà del ‘700 in sud America, dove trovò un clima favorevole alla sua propagazione.
Il caffè quindi arrivò tardi nel continente sud americano e infatti il suo consumo qua in Ecuador non si è mai davvero integrato nella tradizione indigena locale.
Nonostante nell’amazzonia ecuadoriana il caffè non sia molto bevuto è comunque diventato una delle principali fonti di sostentamento delle comunità rurali.
La vendita del caffè infatti rappresenta un buon mercato in quanto la domanda a livello mondiale é in continuo aumento, tanto da doverne aumentare la produzione.
Ciò sta purtroppo provocando anche effetti negativi dovuti alla ricerca di nuovi spazi da coltivare, spesso trovati nell’abbattimento di ettari ed ettari di foresta. I progetti in cui collaboro supportano i coltivatori locali che usano il modello chakra, ovvero il sistema agroforestale ancestrale per cui nello stesso spazio si trovano diversi tipi di piante da legno, da frutto o medicinali. Ciò aiuta ad incrementare la biodiversità dell’area e ad avere la propria fonte di sostentamento dietro casa.
Non sempre però risulta facile incentivare questo tipo di coltivazione sostenibile, in quanto non tutti i produttori intendono il valore aggiunto di un terreno biodiverso e l’interesse alla massimizzazione della produzione rischia di prendere il sopravvento.
Purtroppo infatti capita di osservare terreni totalmente privati di tutto ciò che “no vale”, ovvero senza valore, perché non utile per l’utilizzo antropico, per poter fare così spazio a specie d’interesse commerciale.
Il caffè coltivato principalmente in Amazzonia è di tipo robusta, varietà più resistente e con una resa maggiore rispetto al caffè arabica, coltivato invece sulle Ande ad altitudini maggiori.
Il clima caldo umido caratteristico di tutto l’anno qua in Amazzonia fa si che le piante di caffè crescano rigogliose e presentino allo stesso tempo frutti maturi e acerbi e fiori durante tutto l’anno.
Il periodo però di maggiore produzione e raccolta è a luglio e agosto, come ci hanno spiegato durante la giornata di formazione sulla lotta biologica contro le infermità che attaccano il caffè.
Riuniti attorno agli alberi di caffè sotto la pioggia battente, riparati da una foglia di platano abbiamo infatti stilato, con l’aiuto dei coltivatori, il cronogramma del ciclo del caffè abbinandolo all’andamento del clima. Questo serviva per capire come programmare i trattamenti.
Qua nell’Amazzonia ecuadoriana esistono solo due stagioni, l’estate e l’inverno, ma il confine tra le due è labile. Se chiedi alle persone del posto quando inizia una e finisce l’altra ti risponderanno sempre in modo differente: è inverno quando piove, estate quando piove un po’ meno. “C’è sempre più confusione nel definire le due stagioni, forse anche questo è un effetto di come sta cambiando il clima”, mi dice B.
L’alternarsi di pioggia e sole favorisce il propagarsi della broca, coleottero che si insinua nei chicchi di caffè, trovandone rifugio durante la riproduzione e provocando però così un danno permanente e la sua perdita commerciale.
Il progetto prevede quindi di attuare una lotta biologica con la beauveria, fungo autoctono dell’area che colpisce l’esoscheletro di cheratina del coleottero.
I produttori con cui collaboriamo e appoggiamo nel trattamento sono tutti kichwa, tutti con storie di vita differenti. C’è A., signore sulla sessantina che ogni volta ci accompagna fiero e sorridente con la moglie verso la sua chakra scalando la collina tra fango e fitta vegetazione a passo di giaguaro.
A. coltiva ormai da più di 10 anni le sue piante di caffè. Mentre ci offre la chicha (bevanda fermentata a base di prodotti del campo locali) ci racconta la sua storia, di come ha costruito da solo la casa di legno sulla quale si può godere una vista mozzafiato sulla selva circostante.
I frutti rossi raccolti li vende poi alle associazioni locali, le quali si occupano delle fasi di lavorazione successive.
Il primo passaggio prevede l’eliminazione dei chicchi danneggiati dalla broca mettendoli in acqua e scartando quelli che galleggiano.
Successivamente si fanno passare attraverso la “despulpadora” che ne toglie la polpa e si mettono a fermentare per un paio di giorni in dei contenitori e quindi seccati per una settimana.
Poi i chicchi vengono fatti passare attraverso la “trilladora” che ne toglie la pellicola esterna e li manda alla “classificadora” ovvero un macchinario che con delle vibrazioni e delle maglie divide i chicchi in base alla grandezza.
I più grandi sono quelli con maggior valore commerciale. Dopo questi passaggi i chicchi vengono così finalmente tostati e poi macinati.
Ed è così che finalmente il caffè è pronto per arrivare nelle nostre case ed essere consumato.