di Emma Cortese. Dalla comunità rurale di Huamaurcu la strada che scende verso la città è ripida e scoscesa, costellata di fiori bianchi e profumatissimi. Inizia con una vista mozzafiato sulle montagne della Sierra Andina, che appaiono sempre color blu, forse a causa della lontananza o delle nuvole che si incastrano costantemente sulle loro cime. Urku significa montagna in lingua Kichwa, Huamak è la guadua, una specie di bambù che cresce da queste parti. Huamaurcu, la montagna del bambù.
I due edifici bianchi e rossi che ci si lascia alle spalle sono la scuola della comunità. Le pareti sono di legno, i tetti in lamiera, e tutt’intorno crescono piante di yuca, dalle foglie a stella e gli steli rossi, e alte palme di morete. La strada sterrata curva immediatamente, nascondendo la scuola e i bambini che dopo le lezioni e le attività sono rimasti a giocare a biglie sul prato.
Nelly cammina piano fra i sassi e le erbacce; ha appena cinque anni, lo zainetto rosa in spalla, e non pronuncia quasi mai una parola né fa un sorriso, ma fissa in silenzio la strada con gli occhi grandi e lucidi. Deve camminare per pochi metri, fino ad un varco nella vegetazione che segna il vialetto di casa sua. Nelle minuscole calosce viola si arrampica fra il fango e le farfalle, e un cagnolino le corre incontro abbaiando e festeggiando il suo arrivo.
Dopo la sua casa, una palafitta di legno seminascosta dagli alberi, il cammino prosegue fra i banani, spaventosi fili d’erba giganti, con le loro foglie rotte e i caschi che si intravedono penzolanti. La vegetazione al lato della strada è fitta e verdissima. L’ortica cresce spontanea fra le graminacee e le eliconie, fra gli arbusti di ibiscus e gli alberi di balsa. Poco più in giù, Jocelyn, nove anni, lava i panni nel rigagnolo vicino casa, insieme a sua madre che è incinta del quarto figlio. Lei ha uno sguardo indecifrabile, la schiena piegata. Jocelyn invece sorride sempre, e sembrerebbe spensierata, se non fosse per quei gesti che compie con tanta naturalezza – strofinare i vestiti, sciacquarli, stenderli al sole – che la fanno apparire molto più grande.
La via si srotola verso valle, le montagne sono blu, le nuvole all’orizzonte. Il cielo sembra basso e la luce sempre grigia, anche quando c’è il sole. Fra le chiome frondose degli alberi si scorgono case dall’aria incompiuta, lontane l’una dall’altra, spesso separate da piantagioni di cacao. Per terra, tra fiorellini indaco e farfalle gialle, ci sono bottiglie, cartacce, tappi, spaghi e plastiche di ogni genere. È normale questo alternarsi di bellezza e sporcizia, di fiori appena sbocciati e rifiuti.
La strada sterrata prosegue piena di buche, che ad ogni pioggia violenta s’ingrandiscono. Spesso dopo un temporale la gente della comunità viene a smuovere i sassi e risistemare la carreggiata altrimenti inaccessibile alle macchine.
Una piccola carovana risale a passo veloce il cammino. Ci sono due ragazzi, tre donne che portano le canaste – ceste intrecciate di foglie di paja toquilla, usate per trasportare il raccolto, caricate sulla schiena e rette da una fascia che gira intorno alla fronte – e due bambini che trascinano dei machete quasi più alti di loro. Vengono probabilmente dalla chakra, il sistema agroforestale tipico della cultura Kichwa: un terreno a conduzione familiare dove si coltivano ortaggi, piante medicinali, fruttali e forestali, la principale fonte di sostentamento delle famiglie che vivono nelle zone rurali. Alcuni cani pelle e ossa li seguono arrancando sulla salita, uno si ferma a riprendere fiato all’ombra di una guaba, albero scomposto, i cui frutti allungati sembrano lombrichi che si muovono al vento.
Robin li succhia contento, dopo essersi arrampicato fin sui rami più alti per tirarli giù. Ha i capelli neri neri e il naso all’insù, gli occhi tondi e dolci assediati dai moscerini. Canta spesso, balla, non smette mai di parlare né di sorridere, anche quando i suoi compagni e compagne di scuola lo prendono in giro, perché ha otto anni ma frequenta ancora la prima classe, insieme ai bambini di cinque; non sa riconoscere tutte le consonanti né scrivere i numeri fino al venti. Saranno stati i due anni di pandemia, che qui hanno significato due anni senza scuola, o la sua situazione familiare, che lo hanno lasciato indietro.
Dopo un tratto più irto il sentiero si distende e corre fra quelli che sembrano campi disboscati – unici compagni di cammino sono grilli e galline che razzolano tra i ciuffi di paja toquilla; poi la strada svolta verso destra, all’angolo con una casa dipinta malamente di azzurro, una bella bouganville fucsia a segnarne l’ingresso. Spesso si sente risuonare, dalle finestre senza vetri, un reggaeton a volume alto, che spaventa le tangare, i piccoli uccelli colorati posati sui cavi del telefono.
Maicol passa di qui ogni giorno, sotto il sole o la pioggia tropicale; ha forse sei anni, e va a scuola giù a Ongota, vicino al fiume. Con suo fratello di poco più grande si sveglia ogni mattina alle cinque e scende dalla montagna a piedi, percorrendo circa quattro chilometri. Nel pomeriggio, dopo aver fatto i compiti e giocato a casa Bonuchelli, risale a passo svelto per tornare a Huamaurcu e solo ogni tanto riesce a trovare un passaggio sul cassone di qualche pick-up che va sù. Ha una agilità incredibile e una resistenza sconcertante per la sua età. Non si lamenta mai della fatica, è piccolissimo, allegro, ma la sua pancina è sempre gonfia in modo innaturale a causa dei parassiti, che ha probabilmente da sempre, dato che a casa sua non esiste l’acqua potabile. I suoi genitori hanno deciso di mandarlo a scuola fuori da Huamaurcu, al limitare della città, e nonostante la fatica del tragitto questo lo costringe a uscire dalla comunità. Per altri bambini di Huamaurcu non è così: Iris, per esempio, ha dieci anni, numerosi fratelli maggiori – molti dei quali, appena finito il liceo, lavorano nelle miniere, cercando oro – e due fratelli minori. Non scende mai in città, aiuta la famiglia a lavorare la terra, si occupa della casa e di sua sorella e fratello minori. Li accompagna a scuola, porta loro i quaderni, controlla che mangino, a volte lava i loro piatti sporchi. Silenziosamente prende per mano Alex per riportarlo a casa, gli pulisce il naso quando cola, o spinge Lisbeth a finire tutti i suoi compiti quando la vede distratta. Non li sgrida né gli sorride, e la serietà con cui si cura di loro la fa apparire vecchia, e già madre.
La via prosegue in discesa fra gli alberi di laurel, gonfi di bromelie rigogliose e di nidi di oropendula (un uccello giallo e nero che quando canta pare il suono di un sasso lanciato in una pozza d’acqua – o una spada laser, a seconda delle interpretazioni). Di colpo i ciottoli lasciano il posto all’asfalto, e il paesaggio cambia: a lato della strada la vegetazione è più controllata, più rada. Appaiono recinzioni in lamiera, case di mattoni, giardini recintati da aiuole di piante ornamentali. Si scende svoltando a sinistra verso Aguapungo, una comunità più in pianura, a metà fra Huamaurcu e Tena. Se si prosegue lungo la strada si scorgono i primi segni di vicinanza con la città: un negozio di meccanica a cielo aperto, una baracchetta che vende bibite e qualcosa da mangiare; alcune moto che sfrecciano, case in costruzione, delle altalene ricavate da copertoni di ruote a lato della carreggiata.
C’è una signora anziana seduta sotto un portico, circondata da aiuole di ortensie azzurre, che beve un sorso di wayusa – un tè energizzante diffusissimo – da un pilce, un vasetto tondo ricavato da un frutto bellissimo che è fra i pochi che crescono sul tronco del suo albero invece che sui rami.
La strada attraversa la comunità e arriva finalmente a valle, incrociando una carreggiata che verso est porta ad Ongota, mentre diretta ad ovest arriva a Tena. Bisogna attraversare il fiume Misaguallì per giungere al margine della città, camminando su un ponte giallo e blu che dondola e trema al passaggio di ogni automobile. Sopra l’argine del fiume stanno costruendo un complesso residenziale di lusso che stona con tutto ciò che c’è intorno, a partire dal cavallo baio che bruca l’erba vicino al muro di cinta. All’ombra del grande albero di chuco, che in questa stagione fiorisce in arancione abbagliante, ci sono bambini che si fanno il bagno nel fiume, cani che abbaiano, ragazzi e ragazze che giocano a palla, lavoratori stanchi che tornano a casa con le bodas sporche di fango ai piedi. Anche qui, come sù a Huamaurcu, la strada è costeggiata di fiori bianchi. Caballeros de la noche, li chiamano – i cavalieri della notte – per il loro profumo inebriante.
Il paesaggio può sembrare simile, le persone anche, la distanza fra la città e la comunità sulla montagna è breve, alla fine, eppure Huamaurcu e Tena sono due mondi completamente diversi, vivono vite irrimediabilmente separate. A volte sembra che l’unica cosa che questi luoghi hanno in comune sia il profumo di quegli stessi fiori bianchi, che si disperde nel vento.