Di Annagrazia Graduato. Un anno è sempre fatto di tante cose. Questa volta molte di più, che è difficile raccontare. Allora, meglio cercare di tornare all’origine, di tornare all’essenziale. Come quando si cambia luogo, si devono lasciare delle cose che facevano parte del nostro quotidiano, proprio quando ci stavamo illudendo di cominciare a costruire qualcosa. E ci accorgiamo che in realtà ciò che costruiamo lo troviamo dentro di noi, non fuori. Che non siamo padroni di nulla, se non di noi stessi. E che è tempo di rientrare in contatto con la nostra natura più profonda e con gli elementi che la guidano.
Yaku, Acqua
Negli occhi di Veronica, Maicol, Patricio e Liliana si rispecchia l’acqua. Il loro sguardo curioso vaga, gli occhi grandi spalancati sull’Amazzonia che non hanno mai visto. Non hanno mai visto tanto verde e tanti animali diversi e forse non li vedranno mai più. Probabilmente non hanno nemmeno mai mangiato tutto quello che abbiamo potuto offrire loro in un solo fine settimana. Perché solo un fine settimana basta per regalare ad alcuni bambini la meraviglia. Come camminare sulle cascate, percorrere in canoa i fiumi infiniti dell’Amazzonia. Infiniti come le mie lacrime, in questo mese di ottobre, l’ultimo che mi rimane da condividere con bambini e i “mashi” di questa scuola tanto speciale. Un’acqua impossibile da canalizzare, scorre senza sosta: l’ultimo giorno lascio andar via tutto il dolore del distacco. La “mama Tamia”, la pioggia, tanto invocata nei periodi di siccità. Sono rana, sono uccello. Chiamiamo a viva voce queste nuvole che non vogliono unirsi e scontrarsi, un coro semi animale e semi bambino. Se fossi nuvola, correrei subito a vedere, ad ascoltare. Rimarrei ad annaffiare questi nuovi germogli di vita, piccoli esseri in divenire dell’universo “Yachay Wasi”.
Pacha, Terra
La Pachamama in cui ho vissuto, entità con cui ho convissuto. Ho imparato a dialogarci, per chiederle, supplicarle di darci i frutti tanto ambiti, per cui abbiamo lavorato duro. La terra che ho percorso, gli “Apus”, le montagne che mi hanno accolto. Salire sui vulcani e chiedere permesso per salire, con un rituale e tanta gratitudine di scoprirsi vivi. Come se la terra che avessimo sotto i piedi non fosse scontata. Ma quasi fosse un dono. Ad ogni viaggio dovremmo posare i piedi lievi, gentilmente, ricordando che questa terra ci è stata data in prestito per un tempo brevissimo. E che non si smette mai di imparare a prendersene cura. Seminare mais, far crescere pomodori, zappare, eliminare erbacce infestanti. Costante processo di rimessa in discussione, di evoluzione, questo ci insegna la Madre Terra, se abbiamo la pazienza di ascoltarla e di farci guidare dai suoi ritmi.
Wayra, Vento
Le parole, si dice, se le porta via il vento. La brezza sottile e fugace di tutte le storie condivise con i mashi, che ci parlano di tempi antichi, di fantasmi, di entità soprannaturali, con tanta sicurezza e con un sorriso tanto convincente che è impossibile non restarne affascinati. E in fondo, finiamo per crederci anche noi. Come quando ci raccontano tra il serio e il faceto, delle loro avventure da shamani o delle sbornie delle feste andine, quando ci fanno costantemente notare i segnali che il “mundo sagrado”, la madre natura, lascia per dialogare con gli esseri umani. Sono anche parole dure, che a volte ci rivolgono i mashi, rimproveri e ordini, detti senza gentilezza. Questa volta non sono vento, si attaccano alla pelle, sono pesanti come macigni e non vogliono andar via: gli ultimi giorni sono particolarmente duri, fatti di equivoci e malintesi, di disattenzione e frustrazione. Per fortuna un’ultima riunione di riappacificazione permette di far uscire anche quelle parole a lungo tenute nascoste, annaffiate da lacrime di affetto e marcate da abbracci commossi.
Nina, Fuoco
“El fuego que no se apaga”, che non si spegne. Quello dei nostri sguardi cambiati dopo un anno, della passione che ci ha guidato fin qua. Il nostro amore che arde per il nostro lavoro, per le persone incontrate sul cammino, per il Sudamerica, per questo minuscolo e così vario Paese che è l’Ecuador. Il nostro focolare, le nostre case, calle Bolivia, San José de Monjas, la Yachay. Il fuoco del palo santo che brucia, purifica. Ci trova nuovi. D’altronde è questo il ruolo del fuoco, distruggere. Ritornare alla cenere. Per poi lasciare lo spazio e il tempo per ricominciare di nuovo, la forza per rinascere.