di Chiara D’Arco. Sono le sei del mattino di un giovedì di ottobre. La sveglia non era prevista tanto presto ma il temporale che imperversa non mi lascia dormire. Il suono di ogni singola goccia di pioggia si acuisce sul tetto in lamiera. Eppure, mi chiedo come sia possibile. Soltanto sette ore fa, prima di chiudere occhio, ho controllato il meteo: nessuna ombra di un acquazzone come questo. Antoine aveva ragione – Dimentica le previsioni meteo- mi diceva- qui in amazzonia è possibile azzardare pronostici al massimo un’ora prima, guardando il cielo-. Il clima di un luogo plasma le persone, non la cultura o le tradizioni, quelle sono secondarie. Come potrebbero vivere gli abitanti di un posto come questo se non alla giornata, sfruttando ciò che il giorno ha da offrire?
Oggi è in programma un dia de entrega. La pioggia battente lascia spazio a timidi raggi di sole che presto iniziano ad ardere sulla pelle. Io e Cristina infiliamo le botas e usciamo a caricare nel cassone della camioneta le piantine pronte alla consegna. Alla guida c’è Jeyson, dipendente locale ENGIM e responsabile dell’area vivaio.
Durante un dia de entrega assicuriamo con cura le piante contro il sole o la pioggia e partiamo alla volta di comunità vicine per consegnarle ai beneficiari del progetto. Questi provvederanno successivamente a metterle a dimora all’interno delle loro chakra, sistemi agroforestali tradizionali.
Dare un volto ai beneficiari, entrare nelle loro case e scambiare qualche parola con loro rende il dia de entrega un’ottima occasione per entrare a contatto con il contesto locale che ci circonda. Non solo, ci dà la possibilità di conoscere ed apprezzare la loro cultura, quella kichwa amazzonica, tanto affascinante quanto diversa dalla nostra. Effettivamente, queste giornate rappresentano lo stadio finale di un lungo e paziente percorso che ha inizio all’interno dell’area verde di Casa Bonuchelli. Qui sono coltivate numerose specie di piante maderables e frutales, e cioè piante forestali da legno e da frutto, oltre che alle più commerciali piante di caffè robusta e cacao nazionale. I semi di molte di queste piante vengono recuperati da alberi semilleros che si trovano in foresta o nelle comunità. La ricerca dei semi non è sempre facile, anzi, a volte si rivela una vera e propria “spedizione”. Richiede una profonda conoscenza del territorio, del periodo di maturazione dei frutti (temporada) nonché di una certa agilità nell’arrampicarsi su tronchi altissimi, talvolta aiutandosi con sbilenche scalette di fortuna (i kichwa sono bravissimi in questo).
Con la camioneta carica di piante di chonta (Bactris gasipaes), balsamo (Myroxylon balsamum) e cedro (Cedrela odorosa) arriviamo alla finca di Juan Miguel, uno dei beneficiari e presidente dell’associazione Ñachiyaku.
Per arrivarci abbiamo viaggiato più di un’ora circondate dal verde brillante della foresta, attraversato un fiume e percorso un ultimo tratto di strada costruito soltanto due anni fa.
Io e Cristina sistemiamo le piante all’ombra, riparate dal sole che ormai è alto e picchia forte, e ci guardiamo intorno. Dinanzi a noi c’è una tipica casa costruita in assi di legno e tetto in lamiera. Davanti alla struttura è tesa un’amaca intrecciata a mano con fibra di palma mentre tutto intorno si estendono verdi vallate a perdita d’occhio.
Sapendo del nostro arrivo, Juan Miguel ha preparato un banchetto di platano bollito, uova sode e chicha. La chicha è una bevanda a base di yucca fermentata che costituisce parte integrante dell’alimentazione delle comunità kichwa. Juan Miguel e sua moglie la preparano e la consumano giornalmente per sostentarsi durante le giornate di duro lavoro nel campo. Ci versa la bevanda ancora calda in ciotole ricavate dalla buccia legnosa di un frutto chiamato pilche e ce la offre. Mentre Jeyson beve con gusto, io e Cristina, un po’ dubbiose, la assaggiamo a piccoli sorsi. Non ci sentiamo di rifiutarla perché la condivisione della chicha rappresenta per loro un forte gesto comunitario, ma siamo consapevoli delle conseguenze che una bevanda di questo tipo possa avere sui nostri stomaci, ancora poco abituati al cambiamento di alimentazione e stile di vita. Beviamo e mangiamo e intanto conversiamo. Parliamo di piante, di come da solo ha costruito la sua casa e di come passa le sue giornate nel campo. Intanto sua moglie si trova poco lontano a curare la chakra e a raccogliere yucca in un cesto che trasporta sulla testa.
L’associazione di cui è presidente Juan Miguel consta di 20 soci. Insieme sono proprietari di ben 300 ettari di terreno. Ci spiega che si sono uniti per aderire al programma ecuadoriano Socie Bosque. Il programma Socio Bosque è un programma di protezione dei boschi nato nel settembre 2008 come iniziativa del Ministero dell’Ambiente ecuadoriano. Funziona attraverso incentivi economici che elargisce a privati e a comunità proprietarie di boschi nativi che si impegnano volontariamente a riforestare e conservare queste aree per un lasso di tempo minimo di 20 anni, garantendone la protezione nel lungo periodo. Ponendosi come aree di intervento prioritario quelle maggiormente a rischio di cambio di uso del suolo e risultanti decisive per il mantenimento dei processi ecologici, Socio Bosque è considerato il più grande programma politico del paese per la conservazione dei boschi nativi rimanenti. Gli obiettivi principali sono quelli di contrastare i tassi di deforestazione a livello nazionale, le emissioni di gas serra associate e al contempo migliorare le condizioni di vita dei contadini, delle comunità indigene e delle popolazioni che vivono nelle aree rurali del paese. Siamo contente di sapere che le piante che abbiamo affidato oggi a Juan Miguel entreranno a far parte di un progetto così ambizioso. È tempo di andare, dobbiamo rientrare in sede prima di mezzogiorno per coordinarci con i ragazzi del progetto acqua sull’utilizzo della camioneta. Per ringraziarci, Juan Miguel ci prepara piccoli tesori impacchettati in un maito: hierba luisa da piantare nel nostro giardino, piccoli limoni profumati e i germogli di garabato yuyu, una felce autoctona dal sapore incredibilmente simile al nostro tanto familiare asparago.
Dice che è uno scambio e che è necessario sostenersi a vicenda, mi colpisce la sincerità e la purezza con cui pronuncia queste parole. Durante il viaggio di ritorno, con gli occhi rivolti al finestrino, rifletto su quanto la natura sia parte integrante e imprescindibile della vita quotidiana del popolo kichwa amazzonico e, allo stesso tempo, di quanto sia delicato l’equilibrio in cui vivono le comunità a così stretto contatto con la foresta. Se è vero che il momento della consegna delle piante ai beneficiari rappresenta lo stadio finale del nostro lavoro in vivaio, è anche vero che questo è, allo stesso tempo, il primo passo verso la salvaguardia delle popolazioni indigene, della loro cultura e del loro stile di vita.