di Maddalena Martini. Da un giorno all’altro la mia vita è cambiata tutta. In Italia, ho lasciato l’inizio dell’autunno, per arrivare in un posto dove fa sempre caldo, anche quando piove. Quando è alto, il sole pizzica forte sulla pelle e schiaccia la testa, il caldo brucia tra l’azzurro del cielo e il verde della foresta; quando piove, sembra cadano sassi da quanto è potente la forza dell’acqua.
Ecco, sono qui da un mese, almeno secondo il calendario ufficiale. Nella mia percezione sembra, da un lato, di essere qui da molto più tempo; dall’altro, mi pare di esserci da poche ore, perché non conosco ancora quasi niente e non ho ancora davvero messo il naso fuori di casa senza una sorta di cautela misurata, quasi a voler proteggere il luogo in cui sono dalla mia presenza improvvisa, e viceversa.
In questo mese, abbiamo avviato le attività. Molto rapidamente, sono stata coinvolta nel progetto del Apoyo escolar di Casa Bonuchelli, un percorso di sostegno scolastico ed educativo rivolto ai bambini e alle bambine di diversi quartieri vulnerabili della città di Tena.
In particolare, si è creata e radicata negli anni una relazione speciale con le famiglie kichwa del quartiere di Playita, con cui, oltre alle attività con i più piccoli, si è avviato un percorso laboratoriale con le/i giovani dai 12 ai 25 anni circa. Con loro affronteremo tematiche attuali e complesse legate alla sfera relazionale, al rapporto con il proprio corpo, alla questione di genere, l’uso dei social ed educazione ambientale, insieme ad attività teatrali e manuali.
Dall’anno scorso, si è avviato un processo simile per sostenere la comunità di Huamaurcu. In cui, oltre al percorso di sostegno scolastico con i bambini è stato avviato anche quello sulla gestione dell’acqua potabile e della costruzione di bagni per ogni casa con un sistema di scarico e depurazione delle acque tramite l’istallazione di biodigestori.
Giovedì scorso era la giornata dedicata a Huamaurcu. Andiamo lì la mattina, perché le scuole sono ancora a regime ridotto a causa della pandemia e sono aperte solo due mattine alla settimana. Io e Emma iniziamo la giornata alle 7 con gli occhi appiccicati dal sonno, cucinando riso e frittata per tutti e 26 le bambine e i bambini. E’ una delle prime volte che cucino per così tante persone, sperimentando ingredienti e spezie a cui sono poco abituata, in una cucina industriale professionale. Qui i bambini mangiano molto salato e molto zuccherato e ormai è diventata una sfida personale tra me e Emma su chi riuscirà ad azzeccarne la giusta quantità, insieme a quella di riuscire a tagliare il più velocemente possibile (o a evitare di farlo!) il pollo intero, con la testa, le interiora e gli artigli, che dobbiamo cucinare due volte alla settimana. Oltre ai pasti, prepariamo la Wuayusa, la bevanda tipica di questa zona estratta dalle foglie essiccate dell’omonima pianta locale, lasciate bollire per molte ore e poi servita fredda con molto zucchero, cannella e, a volte, limone. Nell’ancestrale sistema agroforestale della chakra, la Wuayusa è una bevanda energetica preparata quotidianamente dalle donne per sostenere il lavoro di tutta la famiglia sotto il potente caldo amazzonico.
Arriviamo a Huamaurcu alle 8, percorrendo quella strada di circa cinque chilometri che ormai mi sembra normale. A volte realizzo come mi sia abituata a vivere in condizioni che in Italia sarebbero considerate pericolose e rischiose. Qui tutti i criteri di valutazione del rischio (e non solo) subiscono un ridimensionamento e un riposizionamento, è un processo inevitabile del vivere qui. Spesso me ne stupisco, perché in Italia avrei percorso questi cinque chilometri traballanti, con il cuore in gola e il pensiero che, mai più, sarei passata su quel ponte strettissimo di ferro che balla come un pendolo a cucù sopra il rio Misahuallì. Insomma, salendo su una strada sterrata in salita piena di buche, sassi e fango e diversi cedimenti molto scoscesi, si arriva alla comunità. Mi rendo conto di come questo termine – comunità – possa suscitare una visione che è diversa da come in realtà è. Questa parola è complessa, tanto quanto il contesto in cui mi trovo. Non mi è ancora chiaro cosa voglia dire per le persone che la vivono, cosa significhi per loro essere di questa comunità, composta, oltre che da Huamaurcu, da quelle di San Cristobal e di San Carlos. Quello che so è che qui, fuori dai confini delle città, i territori sono suddivisi anche in comunità, considerate come entità strutturate con cui gli organi statali si relazionano. Ogni comunità ha le sue assemblee e strutture decisionali, con uno o più presidenti a seconda delle questioni che vengono affrontate e può usufruire di servizi, più o meno funzionanti o utili. Per quanto riguarda la questione culturale e simbolica su cosa significhi per queste famiglie vivere in comunità, ancora non l’ho compreso. Nel mio lavoro con i bambini, spesso è più difficile entrare in contatto con i genitori, sembra che spariscano quando arriviamo noi, come se suscitassimo in loro una sorta di diffidenza. Per questo, ho potuto assaggiare solo un piccolo sprazzo di quella che è la vita in questo paesino immerso nell’Amazzonia del Napo.
La foresta resta la regina indiscussa della struttura territoriale. Le case, costruite con assi di legno sopraelevate dal terreno come palafitte, sono molto distanziate l’una dall’altra, circondate dal verde denso degli alberi e dalle piante delle chakra, yuca, platano, caffè, cacao e piante medicinali, da cui ogni tanto spuntano galline, pulcini, galli e tacchini che scorazzano liberi.
Quando si arriva a Huamaurcu si vedono soltanto le scuole, gli unici due edifici in cemento, ma aperti, senza vetri alle finestre e con il tetto in lamiera; il campo di pallavolo che si trova in ogni comunità o quartiere e una piattaforma in cemento coperta usata come luogo comune di ritrovo. Tutto intorno è verde e bellissimo. Ci circondano nuvole bianche spumose, rapide e intarsiate nell’azzurro del cielo.
I bambini ci accolgono con una manciata di formiche giganti nelle mani e nelle tasche, si chiamano ucuy in kichwa. Josè, con il suo caschetto di capelli corvini, lo sguardo attento e vivace ne prende una e se la infila in bocca viva, sgranocchiando felice. E poi tutti iniziano a mangiarle, con gusto. Mi raccontano che sono molto nutrienti e che fanno parte degli alimenti della loro dieta, cucinate arrosto. I bambini e le bambine vivono immersi nella natura, conoscono molto bene la fauna che li circonda e possono muoversi agilmente ovunque e a piedi nudi, si arrampicano sugli alberi, lassù fino in cima e si dondolano, come se niente fosse. I primi giorni per me era qualcosa di molto difficile da concepire, abituata all’idea costante di protezione verso i bambini dai pericoli. Con il tempo però ho compreso come la loro modalità di gioco e di confrontarsi con la natura circostante fosse per loro puramente vita quotidiana, mentre per me fosse un’occasione per provare a cambiare punto di vista. Non è un processo facile, ma mi è sembrato quasi inevitabile: mi sento anch’io parte di questo nuovo contesto territoriale e relazionale e non posso che mettermi a disposizione di quello che c’è. Questo processo avviene anche quando svolgiamo le attività educative. Le domande e le riflessioni su quali siano i metodi didattici e pedagogici migliori per accompagnare questi bambini sono costanti. I criteri di valutazione e di giudizio a cui posso fare riferimento richiamano un mondo storico e culturale che è da un lato molto diverso dalla loro vita, ma che in realtà ne impregna gli immaginari e la struttura politica dello stato. In questa complessità, ho deciso di lasciarmi il tempo di osservare, senza avere la fretta di darmi tutte le risposte ora, e di farmi guidare sapientemente dalle mie colleghe più esperte. Oggi, che è il giovedì prima di Halloween, abbiamo deciso di festeggiare tutti insieme dipingendoci i volti di mille colori.
Al ritorno, andiamo a piedi, mentre ci raccontiamo ridendo quello che è successo la mattina, sognamo il pranzo come un miraggio lontano e facciamo il punto su quello che seguirà: con i giovani di Playita oggi cucineremo la Colada Morada, una bevanda originaria delle comunità andine della sierra a base di farina di mais morado, more, mirtilli e frutta. Si beve in occasione del Dia de los Difuntos, dopo domani. Ma questo è un altro capitolo.
Camminiamo quasi un’ora, con il verde della foresta negli occhi e il caldo che gocciola sulla pelle.